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Inquinare di proposito: cos’è l’idiozia americana del rolling coal

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Fumo nero come sfida, libertà come pretesto: il rolling coal racconta un’America che sbuffa rabbia dalle marmitte. Un atto di protesta tossica, tra ribellione e ideologia. E dietro la nube, un Paese diviso che fatica a respirare

Un giorno qualunque. Una pedalata mattutina, una camminata con il passeggino, magari il tragitto verso la scuola o l’ufficio. Poi, all’improvviso, il rumore sordo di un motore che ruggisce. Una nube di fumo nero, denso e aggressivo, che ti investe come uno schiaffo in pieno volto.

Inquinare di proposito: cos’è l’idiozia americana del rolling coal – pavia7.it

Non è una casualità. Non è neppure una bravata. È un gesto voluto. Programmato. Quasi coreografato. E sì, succede davvero. Si chiama rolling coal e, prima ancora di essere una follia meccanica, è una forma di provocazione sociale.

Non è il risultato di motori vecchi o di filtri intasati. Anzi. Chi lo pratica, modifica apposta il proprio veicolo diesel per ottenere quel fumo spesso e nerastro. Si smanetta sui controlli ambientali, si pompa più carburante nel motore e si montano scarichi verticali da film post-apocalittico. Il risultato è uno solo: una nuvola tossica sparata contro chi, semplicemente, sta percorrendo la sua strada. Letteralmente.

A pagarne le conseguenze non sono solo i polmoni. Sono le relazioni. Il rispetto. Il vivere civile. Perché quel fumo non è solo gasolio bruciato male: è un messaggio. Un dito medio, versione meccanica. Un modo per dire: “Io faccio come mi pare. Anche se ti fa male”.

Una protesta travestita da sport motoristico (che fa malissimo)

Dietro a questo fenomeno, che ha preso piede soprattutto negli Stati Uniti rurali, c’è una miscela esplosiva di ribellismo, identità politica e senso distorto della libertà. Il rolling coal viene spesso sbandierato come una risposta diretta alla cosiddetta oppressione “verde”, alla svolta ecologica, alle normative sull’ambiente. Inquinare diventa così una forma di protesta. Grottesca, ma reale.

Non è un caso che questa pratica abbia guadagnato visibilità proprio nei periodi in cui le battaglie politiche sui cambiamenti climatici si sono fatte più accese. Per alcuni, è l’estremo gesto simbolico contro il “politicamente corretto”. Per altri, un modo di ostentare la propria autonomia rispetto ai diktat delle istituzioni, dei media e della scienza. In mezzo, purtroppo, ci finiscono persone comuni, ignare, bersaglio inconsapevole di un fumo che fa male sul serio.

Come tutte le mode contemporanee, anche questa ha trovato linfa nei social. Video virali su YouTube, pagine Facebook dedicate alle “fumate più cattive”, programmi TV che mostrano pick-up trasformati in draghi sputafumo. Il messaggio è chiaro: più fumi, più sei figo. Ma è proprio qui che si rompe il gioco.

Il rolling coal è una (stupida) moda fai-da-te

I pezzi per modificare i motori si trovano ovunque. Basta un saldatore, qualche tutorial online e il gioco è fatto. Ma il punto non è l’accessibilità. È la totale assenza di freni culturali. In molti Stati americani, come il New Jersey, si è provato a mettere un argine, con multe anche salate. Altrove, invece, le lobby e le pressioni politiche hanno affossato ogni tentativo.

E così, il problema resta. Invisibile, ma presente. Come il particolato fine che entra nei polmoni senza chiedere permesso.

I numeri? Parlano chiaro: polveri sottili, ossidi di azoto, idrocarburi incombusti. Roba che fa male sul serio, non solo alle piante. Ma a chi cammina, pedala, respira. E c’è chi comincia a chiamarla con il suo nome: violenza. Come il ciclista canadese che, nel 2016, raccontò al New York Times di essere stato bersagliato due volte in Vermont. “È un’aggressione”, disse. E la cosa più triste è che aveva ragione.

Il rolling coal non è solo una follia motoristica. È il sintomo di un malessere più profondo. Di una società che, pur di non cambiare, si rifugia nel fumo. E lo spruzza in faccia agli altri.

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